Separazione coniugale:
affido esclusivo della prole e sindrome di alienazione parentale

La diagnosi di alienazione parentale, in quanto sprovvista di basi scientifiche certe, non è sufficiente ad allontanare il figlio dal genitore, pertanto, il Giudice dovrà considerare non solo la CTU che l’ha accertata, ma ulteriori ed approfondite indagini.

E’ quanto chiarito dalla Cassazione Civile, Sez. I, nella sentenza n. 13274 depositata il 18 maggio 2019.

Nella fattispecie in esame, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una donna contro la decisione con cui, la Corte territoriale, aveva disposto l’affidamento del figlio in via esclusiva al padre ex articolo 337  quater cod. Civ., previo immediato allontanamento dalla casa, ove viveva con la madre, e collocazione del minore, per un semestre, presso una comunità.

Nella sentenza d’Appello, i giudici avevano condiviso la tesi dei consulenti tecnici, i quali avevano diagnosticato la sussistenza della PAS (Parental Alienation Syndrome), in quanto il comportamento materno era stato giudicato idoneo a generare un conflitto di lealtà nella prole, che può dare fondamento alla diagnosi di alienazione del figlio nei confronti del padre, precisando inoltre, ciò che rileva è l’individuazione di condotte tendenti ad escludere l’altro genitore e sovrapporre gli ambiti dell’affettività propria a quella del minore.

In accoglimento della censura mossa dalla ricorrente, la Cassazione ha evidenziato che, nella sentenza impugnata, non sono state sviluppate adeguate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre all’affidamento, in una situazione di forte criticità dei rapporti tra la donna ed i Servizi sociali, non accogliendo, la rinnovata richiesta di una consulenza tecnica da parte della ricorrente, stante la sufficienza della relazione svolta dai consulenti tecnici nominati e l’atteggiamento non collaborativo della stessa. Orbene, i giudici dell’appello non avevano indicato per quale motivo l’affidamento in via esclusiva al padre, previo collocamento temporaneo dello stesso in una comunità o casa – famiglia, sarebbe stato l’unico strumento utile ad evitare al minore un maggiore pregiudizio ed a garantire al medesimo assistenza e stabilità affettiva, assicurando l’applicazione del principio della bigenitorialità.

Altro aspetto contestato dalla ricorrente è la mancata audizione del figlio. Anche tale motivo è stato ritenuto fondato dalla Cassazione, in quanto l’audizione del minore non poteva essere omessa, trattandosi di un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che lo riguardano ed, in particolare, in quelle relative all’affidamento ai genitori, per cui il mancato ascolto non sorretto da una espressa motivazione sulla contrarietà all’interesse del minore, sulla sua superfluità o sulla assenza di discernimento del soggetto interessato è fonte di nullità della sentenza, in quanto si traduce in una violazione dei principi del giusto processo e del contraddittorio.

Nel caso in esame, il minore è stato ascoltato nel giudizio di primo grado dai consulenti tecnici ed, in particolare, da un neuropsichiatra infantile nominato dal Tribunale; la Corte d’appello ha ritenuto, a distanza di tre mesi dalla decisione di primo grado, di non disporne una nuova audizione, ritenendola non necessaria ed addirittura contraria al suo interesse.

In merito a ciò, la Suprema Corte ha rilevato che il tempo trascorso dall’audizione del minore e la stessa violazione del principio della bigenitorialità imponevano il rinnovo del suo ascolto, anche con il supporto di esperti.

Anche per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte territoriale competente in diversa composizione.

Irene Mancuso
    Avvocato

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